Il contributo prende le mosse da un esame della compatibilità fra la proposta etnometodologica e il concetto stesso su cui tale proposta si impernia – quello, appunto, di etnometodo. Apparentemente scontata, la coerenza/armonia in questione potrebbe rivelarsi problematica; il nodo irrisolto (questa è l’ipotesi) risiederebbe nell’idea della «”uninteresting” essential reflexivity of accounts», a cui Garfinkel riserva solo pochi cenni. Eppure, il “disinteresse” che gli attori sociali provano per le dinamiche postulate dall’etnometodologia non sembra una circostanza marginale: la sequenzialità delle azioni, l’indicalità del loro significato, le modalità pratiche di accomplishment (stenograficamente, gli etnometodi) devono la loro efficacia pratica proprio all’inconsapevolezza con cui vengono tacitamente attuate, al loro essere cioè «seen but unnoticed». In altri termini, il presupposto fondante degli etnometodi risiede precisamente nel fatto che non vengano (quasi) mai messi in discussione: una messa in discussione che fonda (che è) l’etnometodologia stessa, basata infatti su esperimenti «di rottura» e finalizzata a «making commonplace scenes visible». L’estraneità del concetto di “etnometodo” rispetto all’orizzonte di significato degli etnometodi stessi, si inserisce in un discorso più ampio. Nell’ambito del take-for-granted, anzitutto quello di take-forgranted è un concetto insensato: solo concepirlo introduce elementi che il take-forgranted stesso non solo non ha, ma è caratteristico che non abbia. Di fatto, il nonaverli è la sua ragion d’essere – un meccanismo che sembra valere anche per concetti affini come “senso comune” e “vita quotidiana”. In quest’ottica, si punta a mostrare come la distinzione emic/etic sia etic fin dal principio: il gesto stesso di porre la dicotomia è un gesto etic. L’obiettivo finale, in senso schiettamente costruttivo, è vagliare le ricadute metodologiche dell’intero riesame, in materia di (a) scelta degli indicatori, (b) controllo empirico delle ipotesi, (c) teoria dell’azione, evidenziando la vitalità che l’etnometodologia può conservare a patto di essere coerente con se stessa, con i propri presupposti.

L’etnometodo non è un etnometodo. Su una dimensione paradossale degli approcci “emic” / Sabetta, Lorenzo. - (2016), pp. .-.. (Intervento presentato al convegno 1st NATIONAL PhD CONFERENCE IN SOCIAL SCIENCES tenutosi a Università di Padova nel 24/06/2016).

L’etnometodo non è un etnometodo. Su una dimensione paradossale degli approcci “emic”

SABETTA, LORENZO
2016

Abstract

Il contributo prende le mosse da un esame della compatibilità fra la proposta etnometodologica e il concetto stesso su cui tale proposta si impernia – quello, appunto, di etnometodo. Apparentemente scontata, la coerenza/armonia in questione potrebbe rivelarsi problematica; il nodo irrisolto (questa è l’ipotesi) risiederebbe nell’idea della «”uninteresting” essential reflexivity of accounts», a cui Garfinkel riserva solo pochi cenni. Eppure, il “disinteresse” che gli attori sociali provano per le dinamiche postulate dall’etnometodologia non sembra una circostanza marginale: la sequenzialità delle azioni, l’indicalità del loro significato, le modalità pratiche di accomplishment (stenograficamente, gli etnometodi) devono la loro efficacia pratica proprio all’inconsapevolezza con cui vengono tacitamente attuate, al loro essere cioè «seen but unnoticed». In altri termini, il presupposto fondante degli etnometodi risiede precisamente nel fatto che non vengano (quasi) mai messi in discussione: una messa in discussione che fonda (che è) l’etnometodologia stessa, basata infatti su esperimenti «di rottura» e finalizzata a «making commonplace scenes visible». L’estraneità del concetto di “etnometodo” rispetto all’orizzonte di significato degli etnometodi stessi, si inserisce in un discorso più ampio. Nell’ambito del take-for-granted, anzitutto quello di take-forgranted è un concetto insensato: solo concepirlo introduce elementi che il take-forgranted stesso non solo non ha, ma è caratteristico che non abbia. Di fatto, il nonaverli è la sua ragion d’essere – un meccanismo che sembra valere anche per concetti affini come “senso comune” e “vita quotidiana”. In quest’ottica, si punta a mostrare come la distinzione emic/etic sia etic fin dal principio: il gesto stesso di porre la dicotomia è un gesto etic. L’obiettivo finale, in senso schiettamente costruttivo, è vagliare le ricadute metodologiche dell’intero riesame, in materia di (a) scelta degli indicatori, (b) controllo empirico delle ipotesi, (c) teoria dell’azione, evidenziando la vitalità che l’etnometodologia può conservare a patto di essere coerente con se stessa, con i propri presupposti.
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